Quando l’amore diventa una malattia

È da poco passato San Valentino, la festa degli innamorati, ed ho pensato che sarebbe stato interessante parlare, non di amore, ma di quando l’amore si trasforma in una dipendenza disfunzionale o addirittura patologica. In poche parole vorrei parlarvi di “dipendenza affettiva” o di “love addiction”, per usare una terminologia più anglosassone.

Cosa è la dipendenza affettiva? Chi è il dipendente affettivo? Come si diventa dipendenti affettivi? Come si “guarisce” dalla dipendenza affettiva? Queste sono le domande alle quali cercherò di dare una risposta in questo articolo.

Cosa è la dipendenza affettiva?

Non è un compito facile quello di dare una definizione univoca e completa del concetto di “dipendenza affettiva”. Il concetto stesso di “dipendenza” (e di “indipendenza”) è già di per sé complesso: si può non essere dipendenti in assoluto? E fino a che punto è giusto esserlo?

Infatti di per sé la dipendenza non è una forma di disturbo. Anzi come esseri umani, essendo animali sociali, abbiamo bisogno degli altri e di darci reciproco sostegno. Ed è quindi normale che un certo grado e tipo di dipendenza sia comunque presente nelle nostre relazioni, in special modo quando siamo bambini, ma anche nelle relazioni adulte.

Ma allora quand’è che la dipendenza diventa patologica?

La dipendenza diventa patologica quando la relazione con l’altro è vissuta come l’unica condizione per il proprio benessere, tanto da arrivare ad uno squilibrio relazionale in cui i partner non si scambiano più reciprocamente il ruolo di chi si prende cura e il ruolo di chi si affida all’altro e riceve accudimento, ma si irrigidiscono nelle parti e nelle aspettative di ruolo: “Se la capacità di affidarsi e chiedere aiuto non è bilanciata anche dalla capacità di sostenere la solitudine e di effettuare scelte autonome, si entra già in una condizione problematica di dipendenza; d’altra parte la capacità di essere soli e autosufficienti, se non poggia anche sulla fiducia nel potersi affidare all’altro, diviene una forma di rigidità difensiva che sconfina nell’isolamento o, peggio, in una fuga schizoide. In entrambi i casi siamo in presenza di una frattura tra dimensioni che dovrebbero essere compatibili ma che non lo sono più e lungo questa frattura chi si pone da una parte o dall’altra andrà inevitabilmente in contro a degli squilibri relazionali più o meno gravi, tutti collegati con la incapacità di integrare bisogni e funzioni indispensabili per un adattamento sano.”

Quindi come possiamo definire la dipendenza affettiva?

La dipendenza affettiva è una patologia relazionale caratterizzata da uno squilibrio, da una mancanza di reciprocità, dall’impossibilità per la persona dipendente di percepirsi autonomo e indipendente e dalla ricerca compensativa nell’altro di quello che non trova in se stesso.

Chi è il dipendente affettivo?

Ti amo perché ho bisogno di te. Questo potrebbe essere il motto del dipendente affettivo. Il suo tratto saliente risulta essere sicuramente il bisogno viscerale di un’altra persona per poter mantenere un certo equilibrio personale: da solo sembra non avere le risorse interne per poter funzionare sufficientemente bene e l’altro risulta indispensabile per riuscire a conservare autostima e fiducia in se stesso. Infatti è proprio nel momento in cui il dipendente affettivo si trova a vivere la separazione, reale o immaginata, dall’altro che emerge prepotentemente la “patologia”. Infatti essendo terrorizzato dalla perdita, il dipendente affettivo cerca in tutti i modi di evitare il possibile abbandono, accettando qualsiasi comportamento e richiesta del partner, asservendosi completamente all’altro, rinunciando ai propri bisogni e a volte a che ai propri valori. E più percepisce o si fa concreta la possibilità della perdita dell’altro e più il dipendente affettivo cerca con ogni modo e mezzo di aggrapparsi sempre di più al partner, finendo per ottenere sempre meno.

Altra caratteristica del dipendente affettivo è la scarsa autostima, scarsa fiducia in se stesso e il percepirsi come non degno di attenzioni, cure ed amore da parte dell’altro. È per questo che tendenzialmente è attratto dalle relazioni difficili: non essendo abituato a ricevere cure ed attenzioni amorevoli e disinteressate, tenderà a guardarle con sospetto o a percepirle addirittura come false oppure come insipide e banali. Questo lo porterà a richiedere quindi frequenti e continue rassicurazioni e/o prove d’amore, finendo con allontanare partner “normali” e favorendo l’incontro con persone problematiche.

Il dipendente affettivo proietta sull’altro quelle caratteristiche di cui si sente carente (sicurezza, autonomia, capacità di autoaffermazione), idealizzandolo, ed ha l’illusione che il partner lo possa salvare, delegando a questo il raggiungimento della propria felicità. E in attesa che ciò avvenga, si prende cura di lui/lei con zelante dedizione, aspettando invano di essere ricambiato. Si percepisce come incapace di fare a meno del proprio compagno, mentre è convinto che il partner possa tranquillamente stare senza di lui, sentendosi per questo costantemente minacciato da una possibile perdita dell’altro.

Come si diventa dipendenti affettivi?

Ognuno di noi è diverso dagli altri. Le nostre storie sono uniche ed irripetibili e quindi è difficile e a volte rischioso fare delle generalizzazioni. Però ricercando degli elementi comuni, si può vedere come la storia personale dei dipendenti affettivi sia generalmente caratterizzata da un’infanzia in cui hanno imparato a rinunciare a se stessi (ai propri bisogni, attitudini, motivazioni, ecc.)  per ricevere accettazione e considerazione da parte dei genitori. Anzi in alcuni casi sono stati dei bambini “adultizzati” che si sono dovuti prendere cura di genitori problematici, imparando così che per essere amati dovevano prendersi cura dell’altro. “Se guarisco il mio genitore allora lui si accorgerà di me, mi amerà e si prenderà cura di me”, questo è il pensiero che li motiva.

In generale i futuri dipendenti affettivi sono bambini le cui figure genitoriali sono presenti (emotivamente) ad intermittenza: incapaci cioè di essere per il figlio, utilizzando il linguaggio di Bolwby, una “base sicura” alla quale potersi attaccare completamente. Offrendo al bambino limitato interesse ed amore e, anzi richiedendo sovente a lui cure ed attenzioni, tali figure genitoriali non permettono al figlio di vivere a pieno la propria dipendenza e quindi di potersi poi successivamente emancipare, e lo lasciano in una situazione di attesa, caratterizzata dal vissuto ambivalente di angoscia e speranza allo stesso tempo, nella quale il bambino si aspetta che prima o poi i genitori si prenderanno cura di lui. E tutto questo porta il bambino a sviluppare: indecisione, bassa autostima, bassa fiducia in se stesso e negli altri, terrore della separazione e della perdita, frustrazione e reazioni depressive. Tutte caratteristiche che descrivono la personalità del dipendente affettivo.

Come si “guarisce” dalla dipendenza affettiva?

Per il dipendente affettivo non è affatto semplice rendersi conto della propria dipendenza e soprattutto affrancarsi da essa. È per questo che è molto difficile che riesca a farlo da solo e risulta indispensabile farsi aiutare, preferibilmente rivolgendosi ad un professionista, psicologo e/o psicoterapeuta, in grado di accompagnarlo nel lungo e oscillante percorso verso la definizione di se stesso a prescindere dalla propria relazione “tossica”.

Infatti nonostante sperimenti malessere nella relazione con il proprio partner e si lasci andare a frequenti lamentele, soprattutto all’inizio, non desidera per niente separarsi da lui. Proprio perché non riesce a pensarsi senza di lui. Anzi pensarsi senza l’altro, da solo, è angosciante per il dipendente affettivo: la paura di essere solo è il suo incubo peggiore e la solitudine è vissuta come insostenibile. È per questo che il percorso per “guarire” dalla dipendenza affettiva si configura come un percorso di:

– disillusione, accettazione ed elaborazione del proprio dolore;

– riappropriazione di se stessi.

Affrontare il primo gradino (disillusione e accettazione ed elaborazione del proprio dolore) vuol dire rendersi conto che il vuoto, il dolore causatogli da chi si doveva prendere cura di lui quando era bambino, non può essere colmato/riparato da altri e che nessun partner, nemmeno il più amorevole ed equilibrato, potrà mai rimpiazzare quel genitore ideale desiderato.

Affrontare il secondo gradino (riappropriazione di se stessi) significa infine ritrovare una relazione con se stessi a prescindere dall’altro. E cioè: recuperare interessi personali e ritagliarsi spazi e momenti al di fuori della relazione di coppia; rimettere al centro i propri bisogni; recuperare una progettualità autonoma ed un proprio potere personale. In sintesi il sentiero che deve percorre il dipendente affettivo è quello che va nella direzione di iniziare ad apprezzare lo stare in compagnia di se stessi, per poter poi instaurare relazioni più mature e gratificanti e “sane” con gli altri.

 

Per approfondire: Dipendenza e controdipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota, di Borgioni Massimo, ed. Alpes