In queste settimane di permanenza forzata in casa, oltre a gestire l’ansia da coronavirus, ci ritroviamo a dover maggiormente gestire piccoli o grandi conflitti che la convivenza spesso produce. Risulta fondamentale quindi  riuscire a gestire in modo costruttivo questi conflitti, evitando di arrivare a reazioni aggressive. Anche perché, già di per sé, nei rapporti interpersonali è impossibile evitare il conflitto, figuriamoci quando siamo costretti a stare insieme, in pochi metri quadri, 24 ore su 24!

Nella maggior parte dei casi però le persone hanno l’errata convinzione (o illusione) che una relazione che va “bene” debba essere esente da conflitti.

Ma è veramente possibile non litigare mai? Non avere nessun confronto o divergenza di opinioni?

No! Qualsiasi tipo di rapporto implica la gestione di “spazi” personali e spesso questo può portare allo scontro-incontro tra persone. Per “spazi” intendo principalmente i bisogni che ognuno di noi ha e che chiedono di essere soddisfatti.

Quali sono questi bisogni?

Abraham Maslow, psicologo statunitense (1908 – 1970), individuò una gerarchia di bisogni (piramide) che devono essere soddisfatti per arrivare all’autorealizzazione, vale a dire al riconoscimento e alla espressione delle capacità e delle potenzialità dell’individuo.

Al primo livello, alla base della piramide, ci sono i “bisogni di sopravvivenza”: cioè quelle necessità biologiche (fame, sete, sonno, ecc.) che se non soddisfiamo non è possibile prendere in considerazione altri bisogni.

Al secondo livello, al secondo gradino della piramide, ci sono i “bisogni di sicurezza”: ognuno di noi ha bisogno di sentirsi sicuro nel proprio ambiente. Si tratta di una sicurezza non solo fisica ma anche psicologica (non essere ridicolizzati, imbarazzati, … ). La mancanza di soddisfazione di questi bisogni genera paura e tutti sono disposti a far qualcosa per far diminuire questa emozione.

Questi primi due bisogni sono dei bisogni fondamentali, ma non garantiscono la soddisfazione.

Al terzo livello ci sono i “bisogni sociali” (o d’affetto): ogni individuo ha bisogno di avere rapporti interpersonali soddisfacenti che garantiscano l’appartenenza al gruppo, l’accettazione e la comprensione del proprio modo di essere, l’affetto e il calore di una relazione sana.

Al quarto livello ci sono i “bisogni di stima”: cioè il bisogno di essere capaci e stimati per le proprie qualità. È il valore che viene dato alla persona per ciò che riesce a fare, per la sua capacità di conseguire risultati.

Alla punta della piramide, al quinto livello, ci sono i “bisogni di autorealizzazione”: le persone che hanno soddisfatto pienamente i bisogni precedenti giungono a questa sensazione di pienezza e serenità, con la piena soddisfazione.

La teoria di Maslow permette di vedere come alcuni comportamenti siano guidati da questi bisogni (i bisogni sono la motivazione a mettere in atto il comportamento) e permette quindi la distinzione tra bisogni da soddisfare e mezzi per ottenere tale soddisfazione. Talvolta infatti i conflitti nascono non tanto per il contrapporsi di bisogni diversi, ma dal disaccordo sulla maniera di soddisfarli.

Ad esempio il bisogno di riposo può essere risolto sia con una passeggiata che con la visione di un film. L’intesa e la comprensione reciproca possono facilitare l’accordo sui modi di soddisfare il bisogno di ognuno.

Il conflitto infatti non è né buono né cattivo, semplicemente è inevitabile nei rapporti interpersonali, proprio perché, nel rapportarci con gli altri, ognuno di noi mette il proprio mondo di desideri, bisogni, aspettative che, non necessariamente, concordano con quelli altrui.

Ma conflitto e violenza sono la stessa cosa?

No! Ci tengo a fare una precisazione doverosa. Il conflitto e la violenza non sono la stessa cosa. Anzi le due parole sottendono significati molto diversi: la parola “conflitto” attiene all’area della competenza relazionale; al contrario la parola “violenza” appartiene a quella della distruzione, cioè dell’eliminazione relazionale.

Più precisamente la “violenza” si caratterizza per:

  • essere un danno irreversibile, cioè un’azione estemporanea o prolungata nel tempo, più o meno premeditata, volta a creare intenzionalmente un danneggiamento permanente in un’altra persona (ad esempio rientrano in questa descrizione abusi fisici, abusi sessuali, abusi psicologici);
  • essere un’azione volta a sospendere la relazione con l’altro, poiché vi è la convinzione che la problematicità della relazione corrisponda alla persona stessa e che quindi sia necessario eliminare la persona per eliminare la problematicità della relazione stessa (identificazione del problema con la persona);
  • mirare ad una risoluzione unilaterale del problema (proprio per quanto sopra detto).

Invece il “conflitto”:

– si caratterizza per essere un danno reversibile (un contrasto, una divergenza, un’opposizione);

non presuppone che il problema sia identificato con la persona (con cui si ha il problema);

– mira ad un mantenimento della relazione, anche se faticosa e problematica.

Quindi in conclusione quello che distingue “il conflitto” dalla “violenza” è proprio la relazione, o meglio la volontà di mantenere una relazione con l’altro e la capacità di “vedere” l’altro, non identificando la persona con il problema. Risulta quindi fondamentale fare in modo che il conflitto non degeneri in violenza.

Come si possono gestire efficacemente i conflitti?

Ecco alcuni suggerimenti per riuscire a farlo.

Il primo suggerimento è quello di non evitare sempre il conflitto.

Come sopra scritto, spesso litigi e discussioni sono percepite come una minaccia alla stabilità di una relazione, poiché si ha l’errata convinzione che una relazione che va bene deve esserne esente. Chi ha questa credenza percepisce quindi il conflitto come un incidente di percorso, come qualcosa che sarebbe meglio evitare. E spesso accade che queste persone, pur di evitare discussioni e litigi, finiscano con l’assecondare l’altro, rinunciando ad esprimere le proprie opinioni o i propri bisogni e accumulando insoddisfazione, frustrazione e rabbia inespressa (pronta ad esplodere improvvisamente tutta insieme quando il “vaso diventa colmo”).

Queste persone infatti non considerano che non evitando il conflitto e confrontandosi sui reciproci disaccordi si può arrivare a conoscersi e ad adattarsi meglio l’uno all’altro. Ovviamente a condizione che si seguano i seguenti suggerimenti.

Il secondo suggerimento è quello di non risolvere il conflitto con l’uso del potere.

Spesso la risoluzione dei conflitti avviene attraverso l’uso del potere, per cui, trai contendenti, si ha un vinto e un vincitore, chi impone la propria decisione e chi la subisce.

Questo provoca in entrambi una serie di sentimenti e comportamenti quasi mai piacevoli. Infatti chi perde prova verso il vincitore sentimenti di rabbia, risentimento, frustrazione che si possono tradurre in sentimenti di ribellione, vendetta, imbroglio. Non rari sono poi l’imbarazzo, la tristezza, l’impotenza, l’umiliazione che possono portare a comportamenti di sottomissione, disistima, fuga, o al contrario, opposizione.

Anche chi vince, contrariamente a quanto si può pensare, non sempre prova solo sentimenti positivi come la soddisfazione, ma anche frustrazione, risentimento verso l’altro. Di conseguenza la relazione perderà le proprie caratteristiche positive di legame affettivo e si logorerà pian piano, accantonando la propria valenza di rapporto soddisfacente per diventare una relazione che entrambi tenderanno a evitare.

Il terzo suggerimento, che è strettamente collegato a quello precedente, è quello di comunicare in modo non violento, mettendo da parte l’aggressività.

Il “padre” della comunicazione non violenta è Marshall B. Rosenberg, che nel suo libro “Le parole sono finestre (oppure muri)” ci dice di:

  • Osservare quello che sta avvenendo nella situazione senza giudicare o valutare, ma guardando i fatti “semplicemente” come dovessimo fare una descrizione di quello che sta avvenendo. Questo perché limitarsi ad osservare i fatti apre al dialogo. Infatti aiuta anche a circoscrivere l’oggetto della discussione evitando sia di rivangare il passato che di estendere la critica all’intera persona dell’interlocutore. E questo rende possibile attivare un confronto di idee e opinioni al fine di trovare un possibile accordo. Viceversa il conflitto diventa difficilmente risolvibile: sia perché il passato è una dimensione su cui non possiamo agire; sia perché se mettiamo in discussione il valore della persona che abbiamo di fronte questa finirà inevitabilmente per andare sulla difensiva, rendendosi così ancora più inaccessibile e restio a trovare una soluzione.
  • Esprimere come ci sentiamo osservando quei fatti: siamo tristi, spaventati, felici, divertiti o irritati, ecc.? più riusciamo a descrivere i nostri sentimenti con chiarezza e specificità, più saremo in grado di connetterci facilmente gli uni con gli altri. Inoltre esprimendo i nostri sentimenti, ci permettiamo di mostrarci vulnerabili e questo aiuta a risolvere i conflitti.
  • Una volta identificati i sentimenti collegati a quello che è accaduto o sta avvenendo, lo step successivo è quello di esprimere i bisogni ad essi connessi. Questo è molto importante anche perché significa assumersi la responsabilità di quello che proviamo: “ciò che gli atri dicono o fanno può essere lo stimolo, ma mai la causa dei nostri sentimenti”. (M.B. Rosenberg)
  • Infine, avendo ora ben chiaro quale bisogno non appagato è al centro del conflitto, possiamo formulare all’altro, in modo più mirato, la nostra richiesta, cioè cosa avremmo bisogno che lui/lei facesse. Risulta però fondamentale far in modo che la nostra richiesta non venga percepita come una pretesa e quindi non veicolare il messaggio all’altro che sarà punito o incolpato se non si conformerà ad essa. Se l’altra persona si sente attaccata molto probabilmente si metterà sulla difensiva, attaccandoci a sua volta. In questo modo la discussione rischierà di diventare un’escalation simmetrica che porterà solo al risultato di sfiancare entrambi senza arrivare a nessuna soluzione.

“Se manteniamo la nostra attenzione centrata sulle aree suddette ed aiutiamo gli altri a fare la stessa cosa, stabiliamo un flusso di comunicazione in entrambe le direzioni, fino al punto in cui l’empatia si manifesta naturalmente: che cosa vedo, che cosa sento, di cosa ho bisogno, che cosa ti chiedo per arricchire la mia vita, che cosa vedi, che cosa senti, di cosa hai bisogno, che cosa mi chiedi per arricchire la tua vita”. (“Le parole sono finestre (oppure muri)” di M.B. Rosenberg, ed. Esserci)